«Fare biologico non è una trappola. Non so perché il professor Moio, di cui ho stima come insegnante e produttore, abbia sparato a zero contro tutto il settore bio, magari perché stressato o provato da un’annata difficile. Ad ogni modo, è un attacco che non condivido, soprattutto lì dove si parla di mancanza di basi scientifiche». Va subito al punto l’enologo Luca D’Attoma, che sin dagli anni ’90 –quando nessuno ancora ne considerava le potenzialità – ha creduto e praticato viticoltura biologica con forte convinzione. Ed è proprio la parola convinzione quella su cui si sofferma più volte, in questa intervista al Gambero Rosso, in seguito alle parole del presidente dell’Oiv che hanno scosso il mondo biologico.
Secondo lei, cosa vuol dire fare biologico con convinzione?
Crederci. Purtroppo, il mondo biologico è stato vittima di una cattiva interpretazione e in molti hanno iniziato a farlo per altri motivi, ovvero ottenere i contributi europei. In questo modo, si è cominciato a trattare con rame e zolfo in modo eccessivamente invasivo per l’ambiente. Quello che dico io è che non bisogna andare a calendario, ma intervenire al bisogno, quindi, trattare meno in annate normali e di più in quelle caratterizzate da tante piogge.
Sono in tanti a fare biologico per soldi e non per etica?
Purtroppo, parecchi. Diciamo che, invece di interpretare i contributi come un aiuto per risarcire le perdite, hanno pensato solo alla convenienza economica. Ma questo non è biologico fatto bene.
Invece chi fa biologico per vocazione è destinato a perdere competitività, soprattutto in annate come queste ultime?
Chi fa bio deve essere disposto anche a perdere ma, estremizzando le parole di Rudolf Steiner (il padre della biodinamica; ndr), al centro c’è comunque l’uomo: l’azienda deve essere sostenibile anche da un punto di vista economico.
Ma non ci sono proprio alternative a zolfo e rame?
Esistono altri interventi, penso ad esempio gli induttori di resistenza, ma così aumentano i costi. Ad ogni modo, anche nell’utilizzo di rame e zolfo si può essere oculati: è tutto un percorso e una questione di equilibrio.
Come ne esce la viticoltura convenzionale rispetto a quella biologica?
Oggi si parla tanto di nutrirci nel modo più salutistico possibile, ma cerchiamo di essere realisti: abbiamo visto le analisi dei vini nati da viticoltura di sintesi? Con tutti quei residui, c’è da avere paura: è veleno. Tutto nei parametri di legge, ma resta comunque veleno che noi ci beviamo. Questo è la filosofia della viticoltura industriale, dove vale il concetto di minimo sforzo, massima resa.
Quindi la viticoltura convenzionale è il male?
Attenzione, io non sono contrario alla viticoltura convenzionale tout court, ma tutti – da chi fa biologico certificato a chi fa convenzionale – dovrebbero avere l’obiettivo di essere meno invasivi possibile rispetto all’ambiente. La verità è che abbiamo esagerato, senza pensare alla natura.
La certificazione biologica è indispensabile?
È importante, ma non è indispensabile. Diciamo dà maggiore credibilità e serve a comunicare meglio.
Il professor Moio sostiene che oggi le piante siano più deboli e, di conseguenza, non si riesca ad avere uva sana. È davvero così?
La causa è da ricercarsi nella viticoltura di sintesi, non nel biologico. D’altra parte, è vero che le malattie sono diventate più violente. E questo non solo perché è cambiato il clima, ma anche perché si son creati ceppi più resistenti a causa della chimica. Alla pianta succede quel che avviene a noi con gli antibiotici: va bene prenderli se stiamo male, ma a lungo andare ci indeboliscono.
Oggi si può praticare viticoltura biologica dappertutto?
Su questo ha ragione il professor Moio: il bio non si può fare dappertutto, ma – aggiungerei – neppure la viticoltura. Piantare vigneti in ogni dove è stato un errore, di cui oggi paghiamo le conseguenze. E, infatti, ora si torna a parlare di espianti. La verità è che non si può produrre oltre i limiti, decidere di piantare le vigne sulla spiaggia o in zone dove sarebbe stato meglio avere grano o altre colture: bisogna essere morigerati.
Domanda a bruciapelo: i vini naturali sono solo una moda, come sostiene Moio?
Non si possono fare vini che sono frutto del caso. I vini devono essere vini. Cosa vuol dire naturali?
Quindi a suo avviso i vini naturali non esistono?
Io li chiamerei proprio “vini frutto del caso”. La verità è che non si capisce più cosa stiamo bevendo. C’è troppo appiattimento. Al di là delle discussioni sui limiti dell’acidità volatile, credo che il vero limite sia organolettico: se un vino puzza non va bene. Ed è anche una questione di salute, perché potrebbero esserci componenti che fanno male. Siamo in un paese democratico, ma ci sarebbe bisogno di più controlli: iniziamo a usare le regole, la buona forma e la buona educazione.
Vale la stessa cosa per i vini in anfora?
Direi di no. I vini fatti in anfora, coccio o terracotta sanno comunque di vino e non presentano difetti. Questo per me è il criterio. Come dicevo all’inizio, anche in chi decide di provare questo approccio, è indispensabile che ci sia convinzione, altrimenti non si va da nessuna parte.
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