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“Bruno Vespa sbaglia: il vino fa male. Negarlo è da boomer”. Dura replica di Michele Antonio Fino alle parole del giornalista

Nell’ormai celeberrimo video di Bruno Vespa che difende le qualità benefiche del vino contro il semplice dubbio che il vino possa fare male, ci sono una cosa sbagliata, una cosa comprensibile e una cosa grave.

 

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Nessuno studio clinico consiglia di iniziare a bere

La cosa sbagliata, a giudizio di chi scrive, è l’informazione scorretta circa la presenza addirittura di centinaia o migliaia, non si capisce dalle frasi del conduttore, di studi che attesterebbero i benefici connessi al consumo di vino. A fare strame di questa vulgata, peraltro spesso ricicciata dagli ospiti dello stesso conduttore, è il fatto che anche quegli studi che si sono dedicati ad analizzare dei puntuali aspetti positivi del vino, in considerazione del contenuto alcolico dello stesso, non concludono mai con il consiglio di cominciare a bere. Mai, nessuno: non centinaia o migliaia. Nessuno studio clinico consiglia di iniziare a bere. E questa è una prova decisamente tombale contro le asserzioni del dottor Vespa.

Bruno Vespa

Il vino come il fumo

Il fatto che egli scambi degli studi dedicati a singoli aspetti della composizione del vino come studi che ne attestino le capacità benefiche potrebbe essere semplicemente un problema di carenza di strumenti culturali per interpretare, il che comunque non scuserebbe l’esternazione, oppure potrebbe sottendere qualche interesse, che viceversa il fatto di sbandierare la celebrazione della propria ormai decennale azienda vinicola in effetti sembra testimoniare. A documentare ulteriormente come anche questo approccio non risulti fondato, vale la pena di ricordare che pure la nicotina che assumiamo fumando sigarette a degli effetti positivi sulle emicranie, non di meno nessun autore scientifico consiglia di iniziare a fumare.

La sindrome dell’accerchiamento

La cosa comprensibile della intemerata di Bruno Vespa, emerge dalla chiusa raccolta da Gambero Rosso. Nel concludere la propria filippica, con un certo cipiglio, il produttore conduttore afferma che la concorrenza si fa lealmente con altri strumenti, dando in questo modo il proprio supporto alla tesi secondo cui chi afferma che le bevande alcoliche facciano male e quindi il vino, essendo una bevanda alcolica, faccia male a sua volta, in realtà intendono favorire altri consumi.
Questa sindrome dell’accerchiamento è decisamente comprensibile, in un momento storico che vede i consumi enoici decisamente sofferenti e a maggior ragione in un discorso fatto da chi è probabilmente il più efficace cantore dell’attuale governo che della sindrome di accerchiamento ha fatto una cifra stilistica e comunicativa largamente riconosciuta.

Una difesa del vino poco efficace

Dunque, si può ben comprendere che un produttore di vino pensi che la miglior difesa sia negare che il consumo di una bevanda alcolica come il vino possa avere conseguenze negative per la salute, anche se il consumo rimane moderato. In realtà, chi scrive ha messo nero su bianco, ormai diversi mesi fa, l’idea che questa non sia affatto una difesa efficace e quindi qui può molto rapidamente richiamare il fatto che cercare di nascondere la polvere sotto il tappeto rischia solo di far emergere una antiestetica montagnola ben visibile a chiunque entri in casa.

Non esiste una quantità sicura

Il vino è un alcolico, l’alcol fa male secondo tutte le meta analisi serie senza che sia possibile individuare una quantità al di sotto della quale gli effetti negativi siano totalmente scongiurati e pertanto non si può in alcun modo affermare che bere vino faccia bene, in qualsiasi quantità. A meno che non si affermi che bere vino faccia bene senza attingere al concetto di salute oggi più largamente condiviso. Ed ecco il nocciolo della questione: se bere vino comporta l’introduzione di alcol e se non c’è una dose sicura, al di sotto della quale consumare alcol non comporta rischi, ne deriva che consumare vino deve corrispondere ad una libera scelta, compiuta per fini edonistici e per realizzazione culturale, nonostante l’aumento di rischi che ciò comporta. Non diversamente da cosa accade quando decidiamo di esporci al sole per ore in spiaggia d’estate o rischiamo incidenti anche severi andando a camminare in montagna durante una escursione.

La chiamata alle armi di Vespa

Infine, abbiamo la cosa grave che rinveniamo nel discorso di Bruno Vespa. E la cosa grave è innanzitutto il tono ultimativo che, però, non consideriamo di per sé ma nel suo obiettivo finale che ci sembra di intravedere nello stimolo ai produttori di vino affinché difendano una specialità del vino, incapace di nuocere ai suoi consumatori nonostante sia a tutti gli effetti una bevanda alcolica, sebbene con percentuale di alcol ampiamente variabili. Questa chiamata alle armi, mediata dalle parole di Vespa, è decisamente grave perché rischia di convincere produttori e operatori del mondo del vino, che non hanno sufficientemente approfondito la questione, del fatto che è sufficiente rimanere saldi sulla linea tracciata dal conduttore produttore, a questo punto anche condottiero.

Una difesa da boomer

Respingiamo al mittente qualunque critica al vino basata sul fatto che contenga alcol e trionferemo sui nemici del vino, sembra dire il Bruno nazionale. Ebbene, perché è grave una simile visione propugnata con tutta la forza mediatica di un giornalista del quale il servizio pubblico sembra ancora non poter fare a meno?
Perché le prove della dannosità dell’alcol non sono più questionabili. Perché nessuno di coloro che oggi si fidano della comunicazione delle aziende è disponibile a perdonarle se occulteranno i rischi connessi al loro consumo. Perché l’esempio di ciò che fecero le case produttrici di tabacco 50 anni fa, cercando di non far percepire i rischi connessi al tabacco, dovrebbe oggi servire a scegliere la strada della massima trasparenza nel promuovere le proprie produzioni, le proprie tradizioni e le proprie specificità senza punto nascondere le criticità connesse al consumo di bevande alcoliche.
La strategia del conduttore produttore condottiero ci appare quindi del tutto priva di una prospettiva capace di resistere a ciò che è già a disposizione di chiunque abbia semplicemente accesso a Google Scholar: davvero non si vede come si possa ancora dare adito ad una narrazione simile, senza incappare in un inesorabile “ok boomer“.

Michele Antonio Fino è autore di “Non me la bevo”, edito da Mondadori (qui per leggere un estratto)

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Scritto da Gambero Rosso

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