Conchiglie, coralli e incrostazioni sul collo delle bottiglie condite da un ricco storytelling di contorno e prezzi a dir poco generosi. Suona come la ricetta perfetta per irritare una buona fetta degli appassionati di vino. Eppure, dietro le etichette affinate in fondo al mare c’è un mondo complesso di ricerca e innovazione. Una cosa è certa: il vino che ha riposato al buio degli abissi cambia sapore; l’influenza c’è e si percepisce a livello sensoriale. Lo dimostrano gli assaggi effettuati alla cieca, non si tratta di sola suggestione, ogni tipologia sembra rispondere in maniera diversa alle influenze marine. Facciamo un passo indietro, l’acqua e il vino non sono mai andati molto d’accordo. Una svolta arriva in una calda giornata estiva. È il 16 luglio 2010 quando un sommozzatore individua un relitto adagiato sui fondali a sud dell’arcipelago delle Isole ÅLand, nel Mar Baltico, al confine tra Svezia e Finlandia. Si tratta di una nave scomparsa nel lontano 1840, faceva la spola tra la Francia e la corte dello Zar a San Pietroburgo. A bordo, 55 metri di profondità, viene rinvenuto un bottino insolito: 168 bottiglie di Champagne. Quarantasette di queste vengono identificate abbastanza agilmente, sono di una piccola maison ancora attiva, la Veuve Clicquot. Le bottiglie, assaggiate da una giuria di esperti internazionali, sono sorprendentemente ancora in forma, lo Champagne era dolce, come nei dettami dell’epoca, ma l’evoluzione nettamente migliore delle attese.
I vini in fondo al mar
Si accendono i riflettori sulle potenzialità degli abissi, l’assenza di luce e le temperature costantemente basse delle profondità marine acquisiscono il profumo dell’opportunità. Si aprono le danze, i movimenti di ricerca e sperimentazione prendono forza, soprattutto in Spagna e in Italia. A onor del vero, un paio di visionari erano già avanti con gli studi. Su tutti spicca la figura di Piero Lugano della cantina Bisson a Chiavari, che decise di affinare il suo metodo classico a 60 metri di profondità già nel 2009. L’intuizione nacque da una necessità: non aveva spazi in cantina sufficienti per lo stoccaggio, così decise di far affinare le bottiglie (tappo a corona) sott’acqua per poi sboccarle sulla terraferma.
Prime prove
Sulla sponda adriatica Gianluca Grilli è stato tra i primi a inabissare i suoi vini. Come base marina scelse un fondale dell’ex piattaforma Paguro, la stazione Agip installata al largo di Ravenna che esplose nel 1965. Nel tempo ha formato un fondale a 35 metri di profondità che ha iniziato a ospitare Albana, Sangiovese e non solo. Alle iniziative dei singoli produttori si è sviluppata nel tempo una realtà specializzata, fondata nel 2015 da tre ragazzi: la Jamin Underwater Wines di Portofino. Oggi è tra le società all’avanguardia a livello mondiale, non produce vino ma fornisce servizi e know how. Gestisce tutte le operazioni di carico e scarico, monitoraggio e analisi dei dati. Grazie a un evento privato organizzato da Ais Lazio abbiamo toccato con mano una realtà in forte sviluppo. A livello globale, nel 2022 sono state circa 400mila le bottiglie affinate in fondo al mare, nel 2021 erano solo 100mila. Il dato del 2023 si aggira sulle 800mila unità, 150mila arrivano dai nostri mari. In Italia le cantine che scelgono in maniera autonoma di affinare il vino mare sono una decina, molte si affidano a Jamin, che ha già validato circa 200 referenze enologiche.
La profondità
Pura operazione di marketing o suggestione? Ne abbiamo parlato con Antonello Maietta – per tre mandati alla guida dell’Associazione Sommelier Italiana – ora presidente di Jamin. «La temperatura costante e la pressione sul tappo sono gli elementi caratterizzanti, è come se il vino riposasse in una camera iperbarica», esordisce. In profondità la temperatura del Mediterraneo è tra i 13 e 14 gradi, un assist al bacio per il vino. “Certo, se si desiderano solo le incrostazioni sulle bottiglie basta attaccarle per un mese a una barchetta al molo. Il lavoro che facciamo è leggermente più complesso», evidenzia. Ogni 10 metri di profondità si acquisisce una bar di pressione, intorno ai 50 metri si hanno le stesse atmosfere di un Metodo Classico. Le cantine subacquee monitorate sono dislocate tra Portofino, Ravenna, Termoli, Acquappesa e Scarlino. Ma visto il boom di richieste, sono già in cantiere aperture a Cala Violina (Grosseto), Pantelleria e molte altre ancora. Se la viticoltura si sposta sempre più in quota, l’affinamento punta gli abissi per sfruttare la frescura del mare. L’effetto sul vino? «Ogni categoria di vino ha una risposta specifica. Dipende dalla varietà, dal tipo di lavorazione, e da quanto tempo affina sott’acqua. I nostri protocolli sono tarati su intervalli di 6 mesi, ci sono bottiglie che affinano sott’acqua anche dal 2016».
Abbiamo assaggiato rigorosamente alla cieca 12 campioni, lo stesso vino affinato in cantina e in mare. Le modifiche sono evidenti anche a un assaggiatore non troppo esperto, ma con risultati alterni. «Gli esperimenti sulle bollicine sono stati i primi, ma non sono convinto che sia il prodotto che se ne avvantaggi di più. In generale, non vanno bene vini troppo delicati, come bianchi molto leggeri. Discorso diverso con rossi molto tannici e in generale vini con tenori alcolici adeguati, almeno 13%. E ora stiamo cantinando anche vermouth e gin sott’acqua». In breve, il Prosecco sott’acqua ha davvero poco senso. La prima differenza che notiamo è quella del colore. Già dai riflessi riusciamo a immaginare quale dei due campioni sia stato cullato dalle correnti marine. Hanno infatti tonalità più luminose e brillanti, meno concentrate rispetto alla stessa annata affinata in cantina. Solo sull’ottimo Marsala Vergine Riserva 1980 di Francesco Intorcia non abbiamo indizi. No, non avvertiamo una mineralità più intensa sbandierata da diversi produttori. Per fortuna, sarebbe l’indizio di una contaminazione certo non voluta. La discriminante sembra il fattore tempo, a volte accelerato, a volte compresso.
Degustazione
Nel complesso, i vini del mare sembrano più giovani, freschi e scattanti, l’evoluzione più lenta e graduale ricorda il confronto magnum e bottiglia standard. L’acidità, in particolare, è più marcata nei vini marini. Assaggiamo anche due Champagne, si tratta di etichette di proprietà della Jamin elaborate dalla nota maison Drappier. Il campione affinato per 18 mesi in mare ha una carbonica più fine e integrata nella struttura rispetto al campione affinato solo 12 mesi sui fondali. Per procedere con l’affinamento subacqueo bisogna ottenere una concessione demaniale, avviare un iter burocratico e attrezzature complesse. Occorrono ceste da 500 e 1000 bottiglie con sensori, occorre affittare un pontone per le operazioni che costano tra i 12 e i 13 mila per l’immersione e altrettanti per l’estrazione. Causa pressione i sommozzatori sono costretti a fermarsi ogni 10 metri. I costi operativi? Possono impattare tra i 4 e 16 euro a bottiglia in base alla quantità. «Per questo ha senso affinare solo vini che nell’immaginario possono strappare una certa soglia di prezzo». Non a caso si è cominciato con lo Champagne. Il metodo Jamin (dal dialetto ligure, giaminare ovvero lavorare sodo) prevede capsule realizzate con una miscela di gomma lacca, cera lacca e alcune resine naturali.
Sostenibilità
L’aspetto della storia che ci convince meno è l’accento sulla sostenibilità ambientale. La società fa notare il risparmio energetico grazie alla climatizzazione naturale del mare, riduzione del consumo del suolo per ospitare nuove bottiglie e protezione delle zone naturalistiche. Anche il polimero, la pellicola che avvolge le bottiglie in mare è biodegradabile. Benissimo, ma l’affinamento è al momento realizzato su vini che sono già finiti e lavorati, etichette che hanno ottenuto la doc per intenderci. Indi per cui si tratta di un passaggio in più, di un surplus di lavoro, con bottiglie che viaggiano anche centinaia di chilometri per saggiare il silenzio del mare, le operazioni sui fondali e il ritorno in cantina. La leva della sostenibilità ci sembra alquanto forzata, il pensiero è comunque in evoluzione. Entra prepotente il concetto di cantine subacquee di prossimità, in modo da sfruttare le potenzialità del terroir in vigna e del merroir in cantina.
I progetti
«Oggi siamo davanti a progetti agronomici molto diversi, ci sono vini che all’origine sono pensati per affinare sott’acqua. Le analisi sono sempre più sofisticate, la tendenza è quella di affinare in mare nella stessa regione d’origine del vino, il più vicino possibile al luogo produttivo», spiega Maietta. E non mancano sperimentazioni singole anche nei laghi, come nel Lago d’Iseo, ma anche in Alsazia. Negli Stati Uniti, invece, il movimento è congelato, la normativa vieta di affinare il vino in mare per questioni igieniche. Nell’agosto 2023 due produttori sono stati denunciati e migliaia di bottiglie sequestrate, eppure si possono tranquillamente commercializzare i vini affinati sui fondali italiani. Jamin si è trasformata in società benefit a fine 2023, ha raccolto 600mila euro in poche ore grazie a un crowfunding. Il 30% del fatturato è investito in ricerca e sviluppo, sul piano scientifico c’è una strada da costruire. La profondità di immersione genera una pressione dall’esterno verso il tappo del tutto peculiare, contestualmente le correnti generano un dondolio continuo: i vini reagiscono a questi input. Come nel caso del vino trattato con Mozart, la riorganizzazione è di tipo fisico. I vini trovano una nuova riorganizzazione, un nuovo rapporto di forze tra componenti dure e morbide. Il mare non aggiunge, non trasforma, ma modella. Evitiamo di immergerci vini che hanno poco da dire.
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