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“Stiamo lavorando a un Pinot Grigio Doc da vitigni resistenti. Saremo i primi in Italia”. La spallata del Consorzio delle Venezie

Dalla conquista dell’America a quella della GenZ. La Doc Pinot Grigio delle Venezie inizia l’anno in pole position, pronto a spingere sull’acceleratore del cambiamento. I numeri di fine anno gli danno ragione – imbottigliato a +3% e certificazioni a +8% rispetto al 2023 – ma non bastano più. Adesso la missione è conquistare il mercato nazionale e i palati più giovani. Ne è convinto Albino Armani, il presidente del consorzio Doc delle Venezie che, in questa intervista esclusiva al Gambero Rosso, svela i piani per il prossimo futuro: vini a bassa gradazione e utilizzo dei vitigni resistenti. L’iter è avviato su entrambi i fronti, ma non basta solo modificare il disciplinare.

Partiamo dai numeri: una notevole iniezione di ottimismo in un momento in cui i consumi di vino vanno in direzione opposta. Come ve lo spiegate?

Senz’altro si tratta di un dato rassicurante che fa del Pinot Grigio una denominazione anticiclica. La cosa più interessante è che, in quel +3% c’è già dentro un anticipo degli imbottigliamenti (140mila ettolitri circa) della nuova annata. E questo ci dice che c’è una richiesta maggiore di prodotto e che i quantitativi dello scorso anno non sono bastati a soddisfare la domanda.

Insomma, c’è poco Pinot Grigio in circolazione?

Probabilmente negli anni scorsi siamo stati più pessimisti del necessario e, adottando le misure di gestione produttiva – dal blocco degli impianti allo stoccaggio – siamo arrivati corti rispetto alle richieste. D’altronde è l’Italia il maggior produttore di Pinot Grigio al mondo.

Sebbene con una concorrenza sempre più spinta da parte dei Pinot Gris californiani…

Questo ci spinge a non accomodarci sugli allora, ma allo stesso tempo è un attestato di stima. Il Pinot Grigio l’ha scoperto l’Italia. Il fatto che piaccia ai californiani, tanto da spingerli a investire sui nuovi impianti, ci dice che c’è una proiezione positiva dei consumi da qui ai prossimi venti anni: lunga vita al Pinot Grigio, dunque. E che vinca il migliore!

Se l’Italia può vantare il primato produttivo, sul lato consumi la situazione è piuttosto sbilanciata. Quando dici Pinot Grigio, pensi subito al consumatore statunitense. È ancora così?

In termini numerici il Nord America vale oltre il 45% del nostro export. Se nel tempo c’è stata una stabilizzazione dei mercati chiave, tra cui ci sono anche Regno Unito e Germania, abbiamo anche iniziato a lavorare sulla diversificazione delle piazze, puntando, ad esempio, sul Sudest asiatico e, per la prima volta, sul Sudamerica.

Preoccupati per i dazi annunciati da Trump?

Onestamente no. Anzi, le dirò: al momento il cambio euro-dollaro è molto conveniente e ha fatto salire gli ordinativi. Se ha a che fare anche con l’effetto di corsa alle scorte, in vista dei possibili dazi, non saprei. Ma sul mercato statunitense restiamo positivi.

Che ci dice, invece, dell’Italia? Com’è possibile che, nel mercato principale di produzione non si vada oltre una quota delle vendite del 10%?

È vero: il nostro Paese produce la metà del Pinot Grigio del mondo, ma paradossalmente è quello che ne beve meno. È chiaro che per il nostro vino è necessario accreditarsi anche nel luogo di origine. In quanto produttore faccio un piccolo mea culpa: probabilmente il successo internazionale ha portato le nostre imprese ad accomodarsi su un trend che ha garantito crescita costante e redditività, perdendo di vista il mercato interno. Ma per il futuro dobbiamo ricalibrare il tutto e coccolare di più i consumatori italiani.

Campagna promozionali a parte, avete in mente una strategia in particolare?

Intercettare i nuovi trend di mercato con proposte concrete. È vero che il Pinot Grigio, almeno negli States, ha uno zoccolo duro di cosiddetti boomer – quei consumatori che abbiamo intenzione di tenerci stretti – ma non basta più. Per questo abbiamo intenzione di adottare strumenti precisi. E per farlo sarà necessario curvare il disciplinare verso i nuovi stili di consumo.

Proviamo a indovinare: parliamo per caso dei vini a bassa gradazione alcolica? 

Esattamente. Abbiamo già il via libera dell’assemblea dei soci per introdurre nel disciplinare una nuova tipologia di Pinot Grigio dai 9 agli 11 gradi (al momento la gradazione minima è di 11 gradi; ndr) che, con un nome a sé, affiancherà la versione tradizionale. Ma soprattutto sarà un Pinot Grigio con meno calorie. Su questo tema gli Stati Uniti sono molto avanti. Avrà successo anche in Italia? Speriamo di sì. Sia chiaro che parliamo di low alcol e non di vino dealcolato, che tra l’altro non riguarda la produzione di Doc e Igt.

Sareste in buona compagnia, visto che anche l’altre grande colosso del Nord Est – il Prosecco – ha annunciato il lancio di una versione light.  Al di là del disciplinare, per ottenere la versione a 9 gradi sarà necessario intervenire anche nel processo produttivo?

Assolutamente no. Molte aziende hanno già lavorato sul low alcol con le Igt e abbiamo visto che si può tranquillamente scendere di due, tre gradi, semplicemente con una vendemmia precoce, a metà agosto. Le caratteristiche sono diverse rispetto alla lunga maturazione, ma non tradiscono l’originalità del prodotto. Il Pinot Grigio low alcol sarà, quindi, un vino ottenuto naturalmente in pianta, senza altri processi o manipolazioni. Ma questa non è l’unica novità di cui ci facciamo volentieri apripista in Italia…

Qual è la seconda “spallata”?

L’inserimento dei vitigni resistenti per la prima volta nel disciplinare di una Doc.

Pura avanguardia in Italia. Ci spieghi meglio.

Si tratta di una sfida ambientale che abbiamo deciso di accettare, sia come scelta etica, sia per andare incontro alle esigenze dei consumatori più giovani e attenti. La modifica al disciplinare che proponiamo fissa al 10% l’utilizzo dei vitigni resistenti. Sarebbe la prima volta che entrano dentro ad una Doc.

Basta l’inserimento nel disciplinare per poterle utilizzare?

A dire il vero no, anche se abbiamo già iniziato l’iter di modifica del disciplinare a Roma. Bisognerebbe prima sbloccare il Testo unico del vino che permette l’utilizzo delle varietà resistenti solo per le Igt, nonostante a livello europeo la pratica sia ammessa anche per le Doc. Per esempio, in Francia è consentito perfino per lo Champagne.

Vi portate avanti, dunque, in attesa che qualcosa si sblocchi… Ci sono buone possibilità di ottenere il via libera a breve?

Noi siamo ottimisti e con piacere ci facciamo portavoce di questa innovazione che riguarda anche altre denominazioni. C’è anche un disegno di legge in Commissione agricoltura per togliere il vincolo sulle varietà resistenti.

Quando parlate di vitigni resistenti a cosa vi riferite in particolare? Piwi, Tea?

In primis a quelli già sul mercato e riconosciuti dal registro nazionale delle varietà di viti. Poi chiaramente il termine indica il pacchetto completo, dalle Tea alle novità che verranno dalla cisgenetica.

Quali sono i vantaggi di usare queste varietà, oltre a poterlo dichiarare al consumatore?

Dare concretezza al concetto di sostenibilità. I vitigni resistenti permettono di ridurre i costi, garantendo una migliore gestione del vigneto. Non vediamo argomenti, se non ideologici, per dire no al progetto. Abbiamo già sperimentato i benefici delle varietà resistenti con le Igt. D’altronde il vigneto è lo stesso. Perché precludere la possibilità alle Doc? Dobbiamo rompere questo muro. Per questo invitiamo anche gli altri Consorzi e le Doc interessate a crederci e spingere in tal senso.

Tra l’altro il vostro Consorzio non si è mai tirato indietro rispetto alle novità. Da tempo avete già sdoganato l’uso del tappo a vite. Avete pensato anche alle nuove frontiere del packaging, come ad esempio la lattina?

Se ne parla da tempo, ma non rientra per ora nei nostri piani. La carne al fuoco è già tanta così.

ARTICOLO TERMINATO!

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Gambero Rosso

Scritto da Gambero Rosso

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