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Make hummus not war: quel piatto in bilico tra guerra e pace

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Da bambino uno dei compiti che gli assegnava mamma Naama era di recarsi nella bottega di fiducia a prendere l’hummus. Il piccolo negozio si trovava non lontano dalla loro casa nella città vecchia. Il giovane Sami portava con sé un piatto vuoto e poco altro. Una volta arrivato lo consegnava al titolare del negozio che lo prendeva e lo riempiva con la salsa cremosa. Sami ripercorreva la strada da dove era venuto, a tratti correndo, a tratti camminando. Saliva in casa, lo metteva in tavola. Un compito prezioso che ripeteva con grande abnegazione perché la sua famiglia potesse mangiare quella salsa cremosa di ceci, tahina fatta di semi di sesamo e aglio a colazione. Erano gli anni Settanta. E la città vecchia era quella di Gerusalemme.

Hummus, piatto comune a Gerusalemme

L’hummus a casa dello chef palestinese Sami Tamimi è stato probabilmente uno dei simboli dell’unione familiare. Per altri, invece, è oggetto di rivendicazioni e discordia. Non c’è piatto, tra quelli comunemente chiamati “mediorientali” e più diffusi in Occidente, che generi dibattiti come l’hummus. Anche oggi, con la ripresa feroce delle ostilità tra Israele e Hamas, si discute quale sia la cultura a cui appartenga questo piatto. Chi lo ha inventato, come è stato creato, chi è stato il primo a schiacciare i ceci e a mescolarli con la pasta di sesamo e quando. È tutto un citare testi sacri, tradizioni, miti. È entrato prepotentemente nella nostra cultura gastronomica popolare: lo ordiniamo all’aperitivo, si prepara in casa, si trova nei supermercati, ce ne sono decine di varianti. È un piatto tanto diffuso quanto conteso.

Tamimi-Ottolenghi: una collaborazione formidabile

Sami Tamimi insieme al suo amico e collega Yotam Ottolenghi due decenni fa sono stati in grado di trovare un terreno comune nella cucina, abbandonando le rispettive rivendicazioni. Anche sull’hummus. Palestinese il primo e israeliano il secondo, sono gli artefici della ribalta della cucina del Medio Oriente nel mondo occidentale. Il loro libro di ricette, Jerusalem, uscito nel 2012 con Ten Speed, è divenuto un caso editoriale anche per le loro origini apparentemente in conflitto. Una formidabile collaborazione tra Ottolenghi, cittadino londinese ma nato e cresciuto nella parte Ovest di Gerusalemme, editorialista del New York Times e del Guardian, e il collega Tamimi, originario della parte Est della città, chef, socio di Ottolenghi in sette ristoranti a Londra.

Nel loro riuscito tentativo la cucina è diventata paradigma di come un punto di incontro sia possibile. «Eravamo due chef e migliori amici, entrambi provenienti dalla stessa città e dallo stesso paese, ci siamo resi conto di avere molto in comune», dice Tamimi al Gambero Rosso. Tuttavia, questa sintesi gastronomica è stata fatta fuori dal loro paese di origine: «La realtà delle nostre culture a Gerusalemme non avrebbe mai permesso a un palestinese e a un israeliano ebreo di diventare amici, di avviare un’attività insieme o addirittura di pubblicare un libro di cucina sulla gastronomia della città».

Origine e data di inizio (che non ci sono)

Le discussioni nazionalistiche e politiche intorno a questo piatto negli anni sono state quasi compulsive. Secondo il libro Hummus: A Global History di Harriet Nussbaum, scrittrice che si è occupata spesso del cibo nel mondo antico, non esiste una data o un luogo preciso della sua invenzione. Si pensa che l’hummus bi tahina, o hummus con tahini, sia stato preparato per la prima volta nel Levante nel Diciottesimo secolo, durante il periodo dell’Impero Ottomano, prima che molti degli odierni confini nazionali venissero tracciati.

Una teoria, invece, attribuita a Meir Shalev, scrittore, conduttore televisivo e umorista israeliano, sostiene che l’hummus sia stato menzionato per la prima volta nell’Antico testamento. Nel libro di Rut, dedicato interamente alla storia di una donna pagana, verrebbe menzionato un antesignano del piatto conteso: mentre Rut si trova in un campo di grano per procurarsi un po’ di cibo, incontra Boaz, il proprietario del campo. L’uomo le offre del cibo dicendole: «Avvicinati qua e mangia un po’ di pane e intingi la tua fetta nell’aceto». Il termine “aceto” è un errore di traduzione, dice Shalev. La parola originale in ebraico antico sarebbe “hometz” che suona un po’ come “hummus”, ma ricorda anche la parola “himtza”, il nome ebraico dei ceci.

Unione e discordia

L’hummus è un punto fermo, con variazioni regionali, in Libano, Palestina, Siria, Giordania, Israele ed Egitto. Ma lo si può mangiare anche in Turchia e Grecia. Si bisticcia animosamente su chi lo faccia più buono. Ognuno sa dove andarlo a mangiare, cioè la miglior tavola calda, il miglior negozio all’interno dei mercati (nel caso degli israeliani la migliore “hummusiya”).

Quando si parla di Israele il cibo diventa simbolo del conflitto politico. L’ubiquità dell’hummus può farlo eleggere a piatto simbolo di una forza unificante, o viceversa a protagonista di un’appropriazione culturale. La scrittrice palestinese, Reem Kassis, nota per i suoi libri di cucina, in un articolo pubblicato sulla rivista-libro The Passenger (Palestina, il titolo del volume) sostiene che Israele si sia appropriato della cultura gastronomica palestinese: «Nel tentativo di creare uno stato per il popolo ebraico e una nuova identità ebraica nel territorio storico della Palestina tra l’inizio e la metà del XX secolo, il cibo fu tra gli elementi utilizzati per suscitare un sentimento nazionalista israeliano», ha scritto Kassis.

«Presentare piatti di provenienza palestinese come “israeliani” non solo nega il contributo palestinese alla cucina israeliana, ma cancella la nostra stessa storia ed esistenza», ha scritto. Anche gli israeliani lo sentono parte della loro cultura gastronomica. L’hummus, con pita e falafel, è al centro dei menu di moltissimi ristoranti, come quello dell’Hakosem di Tel Aviv, del cuoco israeliano Ariel Rosenthal, che all’hummus ha dedicato un intero libro – Hummus. On the Hummus Route – scritto insieme a Orly Peli-Bronshtein e Dan Alexander.

Se la cucina trova il punto in comune

La cucina ha la straordinaria capacità di colmare divari culturali in tempi di conflitto. «Attraverso il cibo, gli individui possono intraprendere conversazioni significative, abbattendo barriere e trovando punti in comune, anche in situazioni difficili», dice Tamimi. Purtroppo, però, «non è il caso di Israele e Palestina», tiene a precisare. «Quando gli israeliani affermano che l’hummus è un loro piatto, dobbiamo porci la domanda su come una nazione che esiste solo da 75 anni possa effettivamente rivendicare un piatto che è stato preparato e consumato per centinaia di anni da molti paesi del Medioriente».

Certo è che la sua esperienza con Ottolenghi rimane una fiammella accesa su quell’idea, a tratti romantica, di come la cucina, di un piatto come hummus, possa essere unificante e non divisivo; di come la storia del Levante, crocevia di geografie, è stata caratterizzata da un insieme di culture che hanno plasmato una cucina ricca e strepitosa, rendendo addirittura difficile stabilire le origini di ogni piatto.

Anche il Libano ha rivendicato la paternità dell’hummus. Ad ottobre 2008 alcuni imprenditori libanesi hanno chiesto il riconoscimento della denominazione di origine protetta, ma senza riuscirci. A questa guerra dell’hummus ha cercato di rispondere il registra Trevor Graham con il documentario Make Hummus not War, per riportare l’attenzione sull’aspetto unificante e non divisivo.

Un successo straordinario (in numeri)

È innegabile che negli ultimi decenni l’hummus abbia raggiunto un successo globale. Esiste persino una Giornata internazionale, il 13 maggio. E il mercato è ormai enorme. Nel 2020 le vendite hanno raggiunto i 2,62 miliardi di dollari, con una previsione di crescita fino al 2028 di 6,60 miliardi, secondo i dati del Market Research Report 2021.

Uno dei fattori più rilevanti che ne hanno determinato il consumo globale è l’aspetto nutrizionale: è un piatto considerato salutare, ricco di vitamine e proteine. Si è diffuso in tutto l’Occidente soprattutto negli ultimi due decenni, anche impacchettato in contenitori di plastica. La ricetta classica proveniente dal West Asia è stata affiancata da diverse varianti: l’hummus si fa con le patate dolci, la barbabietola, i piselli o le carote, le lenticchie o i fagioli. La nutrizionista statunitense Makenzie Marzluff ne ha inventato una versione dolce durante una festa del Super Bowl e grazie alla quale è nata la sua azienda Delighted By. Sul sito del Gambero Rosso potete trovare anche la versione del nostro Giorgione.

Meglio Lina o Taami?

Sami ormai è adulto. Ha 54 anni, vive tra Londra e l’Umbria. I tempi in cui andava a rimediare l’hummus per conto della mamma sono lontani. Ma quanto torna a Gerusalemme per visitare la sua famiglia o per lavorare trova anche il tempo per imboccare un angolo nascosto in uno dei quartieri del mercato della città vecchia. Lì tra l’odore di spezie e datteri, lì dove oggi camminare per strada è divenuto pericoloso e angosciante, c’è un vecchio ristorante a conduzione familiare gestito dalla seconda e dalla terza generazione della famiglia che lo ha fondato. «Faccio sempre una sosta nel mio posto preferito per l’hummus chiamato “Lina” per assaporare una porzione di questa prelibatezza cremosa», dice Tamimi. Si discute anche su questo. Se l’hummus più buono di Gerusalemme fosse quello di Taami, ristorantino chiuso quattro anni fa quando il suo proprietario se ne è andato per sempre, o quello di Pinati, o quelli di Abu Hassan o della tanto amata Lina.

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Gambero Rosso

Scritto da Gambero Rosso

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