Perché le fermentazioni non sono una moda né una tendenza momentanea (a differenza della “cucina molecolare” ovvero di quella che nasce dagli studi di Ferran Adrià)? Semplice, perché si è sempre fermentato. Potremmo concluderlo così questo articolo, ma non renderebbe giustizia a voi lettori. Allora approfondiamo il tema, questa volta senza scomodare troppo l’alta cucina – forse nel 2023 non avrebbe neppure troppo senso parlare di fermentazioni nei fine dining quando al Noma o al Mugaritz se ne parla da oltre quindici anni – ma cercando di comprendere se le fermentazioni abbiano tutte le carte in regola per passare dall’essere “di moda” al (ri)diventare parte integrante della nostra cultura gastronomica.
La cucina molecolare non ce l’ha fatta – nonostante abbia cambiato per sempre il paradigma della ristorazione gourmet e continui ad avere Bullinians sparsi in tutto il mondo (dal sito elbullifoundation.com: “Bullinians sono tutte le persone che rappresentano i nostri valori e hanno costruito lo spirito di elBulli”, tra questi René Redzepi, Andoni Luis Adúriz e tra gli italiani Massimo Bottura, Enrico Crippa e Stefano Baiocco) – perché non ha potuto far leva su una storicità che è invece implicita nelle fermentazioni.
Secoli (millenni) di fermentazioni
La nostra vita alimentare è stata segnata per secoli (millenni!) dalle fermentazioni, basti pensare ai Romani che andavano matti per il garum o ancor prima ai nostri antenati delle caverne che sapevano far fermentare il miele mischiandolo con l’acqua. E lo diciamo con un bicchiere di vino in una mano e una fetta di pane con del formaggio nell’altra.
“Quando si parla di fermentazione si parla di tanti processi diversi. Parliamo di vino? Di pane? Di olive fermentate in salamoia? Di quale fermentazione parliamo?“, l’intervista a Carlo Nesler (punto di riferimento in Italia per le fermentazioni, nella sua CibOfficina a Viterbo oltre a produrre fermentati, tiene corsi destinati a professionisti della cucina, a nutrizionisti e ai semplici appassionati) parte con delle domande che lui stesso ci pone. “La nostra è tra le culture con maggior presenza di fermentati, ma semplicemente li diamo per scontati, pensate anche a una semplice giardiniera“. Ma qui di semplice c’è ben poco: “La maggior parte delle fermentazioni sperimentate nell’alta cucina non sono altro che fermentazioni acido lattiche, oltre c’è un mondo“.
Non solo lattofermentati
“Spesso si utilizza la parola fermentati per indicare i lattofermentati“, approfondisce Mattia Baroni, cuoco di Bad Schörgau in Val Sarentino che sta portando avanti un progetto avanguardista, The Garum Project, di cui vi parleremo più avanti. “I lattofermentati prevedono l’utilizzo di verdure, acqua, sale in assenza totale di ossigeno, sono prodotti dalle note acide, acetiche e alcoliche, relativamente facili da ottenere“. Sono i fermentati che si son visti (e si continuano a vedere) spesso nei menu di molti ristoranti. Sono lattofermentati gli ormai conosciuti kombucha e kefir, che si possono tranquillamente fare a casa. “Altra cosa sono i fermentati ottenuti con l’utilizzo del koji“, ovvero un preparato composto da un cereale, solitamente riso, su cui si è fatto crescere un fungo, solitamente l’Aspergillus oryzae.
“È il koji a dare l’umami, l’unico gusto che crea salivazione e che è dovuto alla stimolazione di recettori presenti, oltre che sulla lingua, anche nello stomaco. È nel campionato del koji che si è realmente capaci di gestire le fermentazioni“. Difficile non è tanto fare il koji, ma con il koji ottenere risultati completamente diversi dall’ingrediente di partenza: «ti si apre un mondo fatto di garum, di miso, di shoyu, di marinature enzimatiche, ovvero di una vera e propria trasformazione della materia prima, non solo da zucchero ad acido, ma da qualcosa che non ha grande espressività gustativa in qualcosa che esplode al palato».
Le fermentazioni (complesse) in cucina
“Una volta passata la moda, dove eri uno chef figo solo se fermentavi, un po’ come è avvenuto nella cottura sottovuoto (analogia su cui concorda anche Nesler, ndr), ora chi fermenta veramente non sente nemmeno più la necessità di comunicarlo e lo fa in funzione del gusto, non della tecnica“, precisa Baroni. Sottoscrive Davide Caranchini del ristorante Materia a Cernobbio: “Due annetti fa eravamo arrivati a un punto in cui moltissimi ristoranti avevano in menu la parola “fermentato”, noi abbiamo deciso di eliminare il 90% di queste diciture perché è come se specificassimo in carta l’aggiunta di sale o di pepe. Per come la intendo io, la fermentazione è sì un metodo di conservazione, ma è principalmente una tecnica che consente di raggiungere gusti e consistenze che in altri modi non riusciremmo a ottenere“.
Ad esempio, a Materia lo scorso anno hanno creato un prodotto con tutte le parature di funghi e tartufi, ottenendo una salsa super umami: “Un concentrato di terra con una profondità simile alla salsa di soia, ma con un’infinità di sfumature. Sicuramente la useremo nel menu autunnale (ossia l’attuale, ndr), senza mai essere la protagonista ma sempre un supporto a qualcos’altro“.
Funghi, spore e sapori
Nel suo laboratorio Davide usa tre tipi di spore: “La spora dell’Aspergillus Luchuensis, che dona note più citriche, il classico Aspergillus oryzae che quando fermenta sprigiona un profumo che ricorda quello della ganja e l’Aspergillus sojae dalle note tostate, intense, più profonde. Quest’ultimo attecchisce di più sui legumi. Ci sono anche altre spore ma per ora stiamo usando queste su diversi cereali“. Poi usa il koji ottenuto su varie basi di amido (dalla pasta al mais) e di proteine (come i ritagli di selvaggina). Ma la sperimentazione di Caranchini va oltre e tocca pure il tipo di liquido utilizzato – non solo acqua ma anche succhi e brodi – e di contenitore naturale, da quello in legno a quello in cera d’api, “per vedere se rilasciano parti aromatiche“. Attualmente Caranchini con la sua squadra sta portando avanti un lavoro sulle salse umami: “Sono incroci tra shoyu e garum che utilizziamo come esaltatori di sapori. Al momento li usiamo solo nella nostra cucina ma in futuro vorremmo commercializzarli“.
Un altro cuoco che sta sperimentando con i funghi è Michele Lazzarini (dopo nove anni al St. Hubertus, nel 2022 ha sposato il progetto di Contrada Bricconi a Oltressenda Alta): “In collaborazione con un micologo stiamo testando diversi miso e soprattutto di lattofermentati di funghi. In pratica raccogliamo varie tipologie di funghi, li abbattiamo da freschi, li scongeliamo aggiungendo del sale e da lì facciamo partire la fermentazione utilizzando l’acqua rilasciata dal fungo stesso. Il risultato dipende dalla tipologia, ci sono funghi che spingono di più sull’acidità, altri sulla profondità, in generale il gusto del fungo rimane sotteso ma è qualcosa di completamente diverso dall’ingrediente di partenza“.
Il black-out sulle fermentazioni
Assodato dunque che dal caffè al pane, dal vino al formaggio, dallo yogurt agli aceti, i cibi fermentati sono ovunque, è altrettanto indiscutibile che le fermentazioni come le abbiamo descritte qui sopra non facciano poi così parte della nostra cultura gastronomica domestica, e solitamente sono associate più ai paesi orientali o nordici: qual è il motivo? “I prodotti fermentati sono stati sostituiti da prodotti standardizzati: più stabili, ma morti“, risponde con una punta di amarezza Carlo Nesler. E noi abbiamo in gran parte perso le pratiche alimentari che ci sono state tramandate per generazioni.
Basti solo pensare che siamo cresciuti con l’idea di una data di scadenza ufficiale, demandando la sicurezza degli alimenti a un processo in gran parte invisibile, determinato dall’industria alimentare. Se ci pensate, il nostro naso è in grado di distinguere il latte fresco da quello acido, eppure preferiamo guardare la data di scadenza piuttosto che annusare. A tal proposito consigliamo la lettura di un bellissimo articolo – “How we lost our sensory connection with food and how to restore it” – pubblicato dal The Guardian a marzo 2022.
Le fermentazioni hanno solo dei vantaggi
Non prevedono né braci, né forno, né acqua bollente perché sono i funghi e i batteri a fare il lavoro; consentono di utilizzare gli scarti (lo avete mai assaggiato un garum fatto con gli scarti dei carciofi? È incredibilmente saporito) e ingredienti poco gettonati, come ad esempio le meduse, aumentano la shelf-life dei prodotti (nascono proprio come metodo di conservazione quando non c’erano frigoriferi, congelatori né ghiacciaie); ci consegnano prodotti sicuri perché forti di un mondo microbico che li protegge da altri microbi potenzialmente dannosi – “I rischi stanno sempre negli errori, si tratta di capire che cosa si sta facendo“, puntualizza Nesler – e ne arricchisce il ventaglio organolettico e nutrizionale: “In linea generale, i cibi fermentati hanno subìto l’intervento di alcuni microbi. Il risultato sono prodotti più digeribili e ricchi di ingredienti biodisponibili, che contengono una grande varietà di nutrienti e oligoelementi più disponibili a essere assimilati dal nostro organismo; in alcuni casi si abbattono anche tossine o sostanze antinutritive“, aggiunge il guru italiano delle fermentazioni. “Ma da quando l’industria ha iniziato a interessarsi al cibo, ha messo in campo processi tendenti alla stabilizzazione bloccando tutta l’attività microbica attraverso la sterilizzazione. È il modo industriale di fare le cose. E così arrivano sulle nostre tavole cibi sicuri, ma sempre più appiattiti dal punto di vista organolettico. Le fermentazioni, al contrario, necessitano di un’artigianalità dei processi“.
Fermentazioni e industria
Che però le fermentazioni siano “nemiche” dei processi industriali di trasformazione è un punto di vista in netto contrasto – o quantomeno più radicale – rispetto a quanto stanno portando avanti sia Caranchini (in maniera più ridotta) sia Baroni insieme a Gregor Wenter (patron di Bad Schörgau in Val Sarentino) e Stephanie Lüpold, con The Garum Project, startup all’interno del parco tecnologico NOI Techpark a Bolzano votata alla produzione di garum da commercializzare e immettere dapprima nel circuito delle mense e poi nella grande distribuzione. “In un’epoca in cui la produzione di cibo dovrà aumentare, siamo partiti da una domanda, ovvero: ‘come usare materie prime che solitamente non sono considerate cibo e trasformarle in qualcosa di edibile?’ A mio avviso – dice Baroni – nella gastronomia e soprattutto nell’industria l’unica via è la fermentazione: è l’unica tecnica capace di rispondere a questa sfida nel migliore dei modi, perché è a bassissimo impatto ambientale, dà un prodotto salubre, sano, con una shelf-life lunghissima (al momento i nostri garum scadono dopo due anni, anche una volta aperti). E dà un risultato che dal punto di vista gustativo è nettamente superiore alla materia prima originaria. Tantopiù se, come nei nostri garum, la materia prima di partenza è selezionata: dai ritagli di galline al pascolo a fine ciclo – che non troverebbero sbocchi nel mercato – al siero di latte altoatesino. L’obiettivo è aprire degli hub produttivi sparsi per l’Italia e nel mondo pensati per luoghi dove ci siano materie prime specifiche di alta qualità“.
Quest’ultima caratteristica potrebbe essere la chiave del successo dei garum di baroni & co: come convincere la maggior parte della popolazione a intraprendere scelte alimentari migliori se non proponendogli un prodotto più buono? A questo va aggiunto un prezzo abbordabile, tra gli 8 e i 10 euro, e la facilità di utilizzo: “Ci si possono marinare le carni e i pesci per avere intensità difficilmente raggiungibili, accelerandone pure la cottura (grazie all’attività enzimatica) e favorendo una crosticina senza precedenti. Questi garum si possono anche aggiungere spennellati su un pezzo di carne o usati per insaporire un sauté di verdure; o più semplicemente ci si fa un brodo, mettendo il gurum al posto del dado“. Le mode passano, le fermentazioni resistono.
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