Non lo nascondono le imprese italiane e neppure i grandi distributori di vino a stelle e strisce: l’aumento delle tariffe sui beni che dall’Europa entrano negli Stati Uniti appare quasi come acquisito. Il 47esimo presidente in pectore Donald Trump prenderà posto alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo. A quel punto, il mondo agroalimentare italiano, dal comparto vitivinicolo a quello caseario, saprà il proprio destino. Se, infatti, accadrà come nel 2019, ci sarà poco da fare: i prodotti agroalimentari europei negli Usa, prima e storica piazza per il Made in Italy e per la sua Dop economy (che vale 20 ben miliardi di euro), costeranno di più. L’Italia vitivinicola, dal 2019 in poi, si salvò più volte da un carosello che coinvolse soprattutto i prodotti alcolici di Francia e Spagna, a causa della nota disputa di natura aeronautica Boeing-Airbus. Dal marzo 2021, dopo l’arrivo di Joe Biden alla presidenza Usa, le tariffe furono sospese d’accordo con la Commissione Ue (che stimò in 400 milioni di euro complessivi il prezzo pagato per un’anacronistica guerra commerciale), ma se Trump sarà coerente con quanto dichiarato in campagna elettorale (ovvero l’imposizione di dazi all’import del 60% per la Cina e del 10% su beni dell’Unione europea) non ci saranno alternative. E stavolta la roulette non salverà, probabilmente, il vino italiano: «They will pay a big price», ha dichiarato appena due settimane fa il neo presidente repubblicano riferendosi a cinesi ed europei, colpevoli – a suo dire – di non considerare abbastanza le esportazioni made in Usa e promettendo di approvare il Trump Reciprocal trade act, durante un comizio in Pennsylvania.
In questo clima di totale incertezza, a mostrare preoccupazione sono i distributori di vino italiano. Il settimanale Tre Bicchieri del Gambero Rosso ha interpellato un importatore del calibro di Southern Wine & Spirits, presente capillarmente in 46 Stati americani. A parlare, in questa intervista, è l’esperto direttore import Diego Faccioni.
La rielezione di Trump porterà a una nuova guerra commerciale Usa-Ue?
Il rischio c’è. Ma va detto anche che negli Stati Uniti si registrano due fatti molto importanti. Il primo è che le società di distribuzione di vino stanno tagliando il personale sul mercato nazionale perché c’è una forte crisi economica. Non si tratta di 3mila persone come abbiamo letto da qualche parte ma potrebbero essere circa 1.500. Il secondo fatto è che col probabile aumento dei dazi ci sarà un ulteriore aumento di tutti i beni alimentari: il dazio, infatti, andrebbe aggiunto al prezzo di costo degli alimenti e, quindi, sarà soprattutto il cliente finale a farne le spese.
Quanto è concreto un incremento del 10% delle tariffe sui beni dell’Ue?
I dazi saranno sicuramente imposti contro la Cina. Mentre, per quanto riguarda l’Europa, le tariffe sono state introdotte una volta e poi sono state rimosse. Trump ha fatto delle promesse in campagna elettorale ma vedremo. Certo, il timore c’è ed è concreto. Se dovesse accadere, saliranno tutti i prezzi.
Dal 2019 in poi, come reagì il mondo degli importatori di vino?
Tanti importatori, per assorbire l’aumento dei costi a causa dei dazi, fecero imbottigliare nel territorio statunitense soprattutto i vini di fascia di prezzo più bassa e con volumi importanti. Accadde, per esempio, con la cantina Mezzacorona.
Ci sarà la corsa agli acquisti per fare scorte da parte dei distributori statunitensi?
Questo di solito non succede sui vini di alta qualità, venduti principalmente nella ristorazione.
A proposito di ristorazione, come sta il settore Horeca negli Usa?
Sta attraversando una crisi di presenze. Il costo della vita, del resto, è aumentato di circa il 35% negli ultimi anni. Un incremento dei prezzi pari al 10% non darebbe fastidio a chi ha uno stipendio alto e può permettersi di mangiare fuori casa per due volte alla settimana. Invece, colpirebbe chi già oggi non esce più di casa per mangiare, ovvero la categoria operaia. Pertanto, chi sta soffrendo in questo momento non è tanto il ristorante stellato ma è quello medio-piccolo. Da quattro anni a questa parte, i prezzi si sono decisamente alzati. Una famiglia statunitense che oggi guadagna in media 50mila dollari l’anno, a fronte di un incremento del costo della vita consuma pasti fuori casa molto poco e molto meno rispetto al passato. Anche in Gdo si compra meno vino.
Cosa sta accadendo ai prezzi dei vini nei ristoranti?
I ricarichi sono molto alti. E l’aumento riguarda anche il vino alla mescita, che si vende meno e sta soffrendo.
Perché il calo sta coinvolgendo anche la mescita?
Perché i clienti preferiscono bere un cocktail al posto del vino. Un calice di vino che dieci anni fa costava circa 8 euro oggi costa circa 18 dollari. E tale incremento si sente soprattutto nel ristorante di fascia media. Invece, in quello di fascia alta, non sta cambiando nulla. Bisogna pensare che oggi quattro persone a cena in un ristorante di fascia media spendono circa 600 euro. Non tutti se lo possono permettere.
Gli importatori di vino americani si caricheranno i costi degli aumenti pur di non pesare troppo sui consumatori e perdere volumi?
Una delle strategie messe in campo per fronteggiare i dazi è dividere il peso dei dazi all’interno della filiera. Nel senso che una percentuale di aumento è assorbita dal produttore, un’altra dall’importatore e una dal cliente finale, in modo che ciascuno paghi una piccola quota di quel +10% annunciato dal presidente Trump.
In un contesto fortemente inflattivo è più difficile vendere qualsiasi cosa. Come si sta comportando l’Italia?
La causa della crisi, come abbiamo detto, è l’incremento dei prezzi. Ciò si nota anche nelle denominazioni più importanti del Made in Italy. Per esempio, un Brunello di Montalcino è in carta vini dai 150 dollari in su.
E le nostre regioni come stanno andando?
La Toscana è sempre in crescita così come pure il Veneto, grazie a vini come Pinot grigio e Prosecco. Le più richieste restano Veneto, Toscana e Piemonte. Ma ottimi risultati li registriamo dai vini dell’Abruzzo per l’alta qualità a prezzi convenienti. C’è poi la Campania, che ha fatto un exploit rispetto a un decennio fa. E anche la Sicilia, con il Nero d’Avola, ha fatto breccia, ultimamente anche grazie ai vini dell’Etna. In generale, possiamo dire che l’Italia è stabile nei volumi. Il mercato è molto competitivo nelle fasce di prezzo al di sotto dei 12,99 dollari, che rappresentano l’80% del fatturato delle catene dei negozi che vendono vino italiano.
Quali sono i trend attuali nel mercato Usa?
Mentre i consumatori più maturi insistono solitamente su un prodotto, i giovani sono più curiosi e chiedono al sommelier cosa c’è di nuovo in carta. Nelle grandi città, da New York a Miami fino a Las Vegas, un po’ meno a San Francisco, i consumatori sono più aperti e molti ristoranti hanno liste vini adeguate a questo tipo di clientela. Altro trend da segnalare è il grande calo dei rosati, con una particolarità: chi beve il rosato e sceglie di cambiare non si sposta sul rosso ma passa al bianco.
Cosa ci può dire del fenomeno della premiumisation?
La qualità resta importante e il vino italiano è fortemente gettonato. C’è molta disponibilità e richiesta da parte dei clienti a bere italiano e le scelte degli importatori si orientano prima di tutto sulla forza del brand.
Come può il vino italiano contrastare la concorrenza delle altre bevande?
Siamo in un mercato in cui gli spirits stanno facendo una dura competizione al vino, soprattutto grazie ai cocktail che stanno andando molto forte. A questo proposito, notiamo l’affermazione dei mocktail, ovvero dei cocktail analcolici. E il vino italiano, in questo scenario, può lavorare per avere una maggiore presenza sul mercato, attraverso promozioni, nuove strategie di posizionamento del prodotto, sfruttando anche la lunga esperienza e la conoscenza del settore da parte dei distributori di vino.
Facciamo una riflessione sui vini no-low alcol. L’Italia non ha ancora una regolamentazione ma il mercato degli Stati Uniti è già aperto a questi prodotti. Che ne pensa?
Sono due prodotti separati. Il vino presente sul mercato oggi è in prevalenza dealcolizzato e per il 99% è venduto sulla piattaforma Amazon. Noi, come Southern Wine & Spirits non lo trattiamo. Nella ristorazione, i vini dealcolizzati e quelli a bassa gradazione alcolica non sono presenti. I sommelier, in generale, preferiscono lavorare sul vino tradizionale. Se vogliamo attribuire a questo segmento una dimensione, la percentuale di dealcolizzati è stimabile nell’1 per cento del mercato degli Usa: è un segmento tutto da sviluppare, ovviamente in collaborazione con le aziende vitivinicole.
L’Italia deve sfruttare questa occasione?
Come tutti i trend durano per poco tempo. C’è un po’ di presenza di dealcolati, ma devo dire che non c’è ancora troppa richiesta.
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