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Da Moncaro a Terre d’Oltrepò, il vino cooperativo alla ricerca di una nuova identità

Cambiare per sopravvivere. Potrebbe essere questa, in estrema sintesi, la situazione del mondo del vino cooperativo in un momento di profonda crisi per i consumi globali di vino. Le ultime vicende (seppur con modalità molto diverse tra di loro) – da Moncaro a Terre d’Oltrepò – ci obbligano ad una profonda riflessione sul futuro di questa forma di governance, che in questo momento – inutile negarlo – appare in affanno. D’altronde, la situazione non riguarda solo l’Italia. La Francia, attualmente, conta un 20% di cantine cooperative definite in difficoltà da Vignerons cooperateurs, sigla che rappresenta le cantine sociali. E non è un caso che sia proprio il mondo cooperativo (anche quello italiano) a insistere in Europa sul tema degli estirpi per ridare fiato (e finanziamenti) alle cantine in difficoltà. Ma andiamo con ordine, partendo dalla fine.

Un anno complicato per le cantine cooperative

Il caso più eclatante, va da sé, è quello di Terre Cortesi-Moncaro. Dopo mesi che definire complicati sarebbe un eufemismo, la più grande cooperativa vitivinicola marchigiana, è finita in liquidazione (o, per dirla, in soldoni, è fallita) dopo aver contratto debiti per 38 milioni di euro. In Sicilia qualcosa scricchiola. Quest’estate, in piena vendemmia, la realtà sociale Colomba Bianca è dovuta intervenire, con un accordo salvagente, per soccorrere la cooperativa Europa e i suoi soci, che hanno così potuto continuare il loro lavoro e conferire le uve alla realtà guidata da Dino Taschetta.

A questi esempi di evidenti difficoltà, si aggiungono i casi che, invece, parlano di trasformazione interna, se non addirittura di evoluzione, del modello cooperativo”. A Soave, lo scorso marzo, la cooperativa Cadis 1898 ha sfiduciato – in modo burrascoso – il direttore Wolfgang Raifer per sostituirlo poco dopo con  Alberto Marchisio e rivedere tutta l’organizzazione interna.  Venendo a tempi più recenti, è della scorsa settimana la notizia che Caviro (che nel 2022-23 ha portato a casa ricavi per 423 milioni di euro, con indici finanziari stabili) ha deciso di puntare sui vini premium e per farlo ha diviso nettamente la parte cooperativa – le Cantine (con dentro il brand Tavernello) – da quella delle Tenute. Negli ultimi giorni, invece, sta facendo discutere la scelta del presidente della cooperativa Terre d’Oltrepò, Umberto Callegari, che, con una lettera ai dipendenti, ha annunciato la nascita di una società per azioni, interamente controllata dalla cantina sociale (di fatto una trasformazione gerarchica).

Il modello cooperativo è in crisi?

I casi di cui sopra, ci parlano di un certo subbuglio nel mondo delle realtà sociali e di strategie diverse per affrontarle. La domanda non è peregrina: il mondo cooperativo è andato in crisi? Lo abbiamo chiesto al professor Alberto Mattiacci, ordinario di Marketing & Business Management all’Università Sapienza e in Luiss Business School, oltre che rappresentante italiano nel Wine Market Observatory presso la DG Agri della Ue (docente per la Gambero Rosso Academy del corso di alta formazione “Il vino del futuro).

«Quando, come oggi, ci sono momenti di cambiamento profondo in molte componenti del mercato – dai consumatori ai retailer, per esempio – si parla subito di crisi e ci si interroga se sia strutturale o passeggera. Io penso che sia troppo presto per qualificare il momento attuale come “crisi strutturale”, perché il messaggio che sale dai mercati potrebbe essere invece un altro: alcuni elementi sono divenuti maturi e disegnano uno scenario differente, del quale bisogna prendere atto e adeguare strutture aziendali e comportamenti di mercato. Un esempio? Oggi conosciamo meglio il mercato cinese e si è capito che non sarà quella gran festa che noi europei si pensava. Un altro? Il vino non è più glamour, nel senso inteso negli anni Novanta, ed è “semplicemente” una delle molte bevande alcoliche a disposizione. Siccome i fatti maturi sono molti – e tutti assieme – ecco le difficoltà che tutti vivono. A essere particolarmente esposte, secondo me, (sono e saranno) tutte le quasi-aziende del settore: dalle piccolissime realtà (che di aziendale hanno solo la partita iva) alle cooperative.

Quest’ultime, in particolare, per come sono concepite hanno difficoltà di adattamento alle nuove condizioni.
Prima di chiedermi se il modello cooperativo sia in crisi, mi chiedo se esista “un” modello cooperativo, o non siano piuttosto diversi modelli. Ciò detto, la cooperazione è una grande ricchezza ma ha le debolezze tipiche di tutte le organizzazioni democratiche, per cui deve darsi regole di governane e azione assimilabili a quella dei competitori monocratici, che sono: più veloci, perché risolvono a monte la composizione degli interessi degli shareholder, più bravi perché si avvalgono di manager professionisti che rispondono coi e dei risultati e non della propria capacità diplomatica di mettere pace fra i loro danti causa. Il problema non è la forma giuridica ma che la cooperazione deve andare alla guerra come si va alla guerra, dotandosi di procedure efficaci di governance e di persone al comando che siano in grado di gestire un mercato che ormai è in cambiamento radicale».

Percorsi decisionali troppo lunghi per le cooperative

Se c’è, quindi, un fardello che le realtà sociali si portano dietro è, in primis, quello di percorsi decisionali troppo lunghi e influenzati dalle relazioni di persone non sempre dotate della stessa capacità di visione e analisi, come sottolinea Mattiacci: «La cooperazione deve passare attraverso tutta una serie di dinamiche decisionali complessissime, quando dall’altra parte ci sono multinazionali che affidano pieni poteri all’Ad e, quindi, ci mettono due riunioni a decidere cosa fare. Il regime di competizione è impari. Nei modelli dove ci sono troppi galli nel pollaio, c’è il rischio che si arrivi a situazioni di crisi come nel caso della Moncaro».

I vantaggi di una Spa rispetto ad una cooperativa

Mattiacci si sofferma sul caso di “trasformazione” di Terre d’Oltrepò in una sorta di cooperativa gerarchica, attraverso il lancio di una spa interamente controllata. ««È una possibile strategia che può funzionare – dice – rispondendo all’esigenza di dare una diversa forma giuridica che consente di interloquire con i mercati finanziari in modo diverso: la spa per esempio può accedere al 100% delle opzioni di finanziamento – dalla vendita di azioni, alle obbligazioni, per dire – mentre la cooperativa ha qualche limite in più. La trasformazione può, quindi, essere una scelta molto saggia per superare i limiti del modello cooperativo». C’è, poi un tema di snellimento delle procedure: «La spa – è innegabile – possiede di natura una governance molto più efficiente ed efficace delle cooperative, i cui processi decisionali sono estremamente farraginosi, frutto più di compromessi interni che di risposte alle condizioni di mercato. Purtroppo lì dentro può accadere – conclude l’economista – che le cose giuste da fare sul piano competitivo non coincidano con le cose buone da fare in termini di equilibri interni tra i soci».

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