Il 25 giugno, in centro a Senigallia, sono entrato nel negozio di Francesca Casci Ceccacci, dove il filone casereccio, impastato utilizzando una farina integrale biologica è in vendita a 5 euro al chilo. Quella farina ha nome e cognome, nel senso che “Pandefrà” porta avanti progetti di filiera con contadini e mugnai della provincia di Ancona, per valorizzare l’agricoltura del territorio all’interno del suo laboratorio e del suo punto vendita. Due giorni prima, in un supermercato di Sirolo, avevo acquistato un pane bianco, da farine la cui provenienza non era assolutamente dichiarata, fermentato usando sia lievito madre che lievito di birra, con un bell’elenco di ingredienti, a 6,30 euro al chilo. Era una pagnotta assolutamente impalpabile e – lo avremmo scoperto aprendola – con una grossa bolla d’aria al suo interno: se è vero che bisogna andare «oltre gli alveoli» (cit. Annalisa Zordan, curatrice della guida Pane e panettieri d’Italia del Gambero Rosso), chi ha impastato quel prodotto ha preso alla lettere l’invito, optando per un unico ma gigantesco alveolo, frutto di una lievitazione assolutamente sbagliata e che rendeva tra l’altro estremamente difficile gestire ogni fetta di pane.
Il tema del prezzo
Il tema però più eclatante è la differenza di prezzo, ingiustificata e ingiustificabile. Una differenza di prezzo che stimola alcune riflessioni, perché negli ultimi anni la forbice tra le realtà eccellenti come “Pandefrà” (Francesca è anche la presidente dell’associazione dei Panificatori Agricoli Urbani) e il mercato che possiamo definire convenzionale s’è andata a stringere sempre di più, con alcuni evidenti paradossi come nel caso del pane acquistato nel supermercato di Sirolo non aiutano. E se è vero che le storie dietro i forni censiti nella guida Pane e panettieri d’Italia 2025 rappresentano le eccellenze che non possono portare ad identificare una direzione univoca del mercato (lo ha spiegato meglio di me Zordan, intervistata da Lorenzo Vecchia a C’è di buono su Radio Popolare), lo è anche che la critica e l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe concentrarsi non tanto sul forno Ambrogia i cui clienti scelgono di acquistare il pane a 9 euro al chilo (da farine di filiera), quanto la massa indistinta di forni e rivendite di pane che fanno pagare 6 o anche 7 euro al chilo del pane-che-non-è-più-un-alimento, che non nutre, che in molti casi non è nemmeno sano, perché ottenuto da farine che contengono residui di pesticidi o altre sostanze di sintesi, magari nemmeno ammesse nei Paesi dell’Unione europea, utilizzate nel processo produttivo.
Affitti da capogiro
Quanto costa quella farina da cui è stato ricavato quel pane, venduto a 6,30 euro al supermercato? Quali costi d’impresa remunera quel prezzo al dettaglio? Qual è il margine per il dettagliante? È su questi aspetti che dovremmo concentrarci e che dovrebbe concentrarsi chi invece decide di guardare solo al mondo del pane in fermento e di attaccare un mondo che è finito in qualche modo sotto i riflettori. Chi lo fa, spesso, non conosce da vicino i forni artigiani di nuove generazione, all’interno dei quali esiste una forte riflessione sull’equità, cioè sulla necessità di garantire un pane accessibile. Anche a Milano, città dove si possono spendere fino a 50mila euro all’anno per affittare un laboratorio con piccolo spazio per la rivendita, c’è chi per scelte propone un pane agricolo e biologico a 6 o 6,50 euro al chilo, lo stesso prezzo che paga chi acquista ciabattine incolori in un forno che promette con calcomanie di impastare solo farine italiane per regalare un pane veramente italiano, facendo emergere un gastronazionalismo ormai non più solo latente, ma sdoganato al governo (dal ministro Lollobrigida) e dalla principale organizzazione di agricoltori (Coldiretti).
I nuovi panificatori
Dovrebbe invece chiedersi, l’osservatore, come e in che modo il fornaio può essere protagonista di azioni di pianificazione territoriale, costruendo relazioni di filiera in grado di garantire la coltivazione di terreni in aree marginali, che molto spesso hanno una vocazione cerealicola (come Cibo, coraggiosa realtà indipendente d’Abruzzo). Come evidenzia la nuova edizione di Pane e panettieri d’Italia, “circa il 10% dei panifici coltiva i propri grani, e se anche non soddisfano l’intero fabbisogno, questi sono perlopiù grani locali, che da una parte possono essere una risposta genetica adattativa alle sfide ambientali, dall’altra caratterizzano per davvero il pane, che così ritorna a essere locale pure lui”. Ha ragione Antonio Pellegrino, presidente della cooperativa sociale Terra di Resilienza Monte Frumentario di Caselle in Pittari, in Cilento, quando afferma «in Appennino non mangiamo più il nostro pane». Lo ha detto a inizio giugno, a Bologna, durante Forni e fornai-e: voleva richiamare l’attenzione sull’importanza di coltivare e quindi trasformare il grano dei territori dell’Italia interna, in quell’Appennino che, abbandonato, frana a valle.
L’ultimo libro di Luca Martinelli, scritto con Laura Filios, è “Pane buono. Viaggio nell’Italia dei nuovi forni artigiani” (Altreconomia edizioni)
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