«Quando sono cliente e vado al ristorante mi chiedo sempre se ci tornerei. Ecco, io lavoro perché qui ad Autem la gente non veda l’ora di tornare. È lì che mi sento bravo». Nell’epoca dei gastroritmi e delle gastrosofie, non sarà che la formuletta elementare di Luca Natalini sia l’unica che conta davvero? Buono, bello, torno.
Me lo chiedevo l’altro giorno, mangiando alla sua tavola milanese, nel locale in Porta Romana a Milano, in via Serviliano Lattuada al numero 2, che ha aperto dopo mille vicissitudini, dopo aver lavorato al Pont de Ferr con la grande Maida Mercuri, dopo una pandemia che lo ha spinto a rivedere i progetti, dopo un matrimonio, dopo un viaggio di nozze trascorso a provare tristellati in Francia. Dopo tutto questo ecco Autem, parola latina che avversa e congiunge, un “d’altra parte”, un “inoltre”, un “invece”.
Una parola che stira i concetti, a svolgere una mansione dialettica non necessaria ma pure bellissima.
Cucina di natura
Autem è un luogo elegante, che inizialmente sembra il classico ristorante milanese fine dining, ci metti un po’ a capire che in fondo non lo è pur essendolo: autem. Il locale è dominato dalla figura di Luca, tutt’altro che statuaria, una barbetta da nerd, una voce flautata con un ingombrante accento toscano (lui, classe 1989, è di Pescia, nel Pistoiese), avrebbe tutto per soccombere nella tonnara milanese degli chef-indossatori, di pensiero ben scandito, di dizione internazionale, di narrativa codificata alla Netflix. E invece ne esce ingigantito dal confronto. La sua cucina è semplice e nitida, pochi sapori perfettamente a fuoco, una capacità di mimesi assoluta, un’urgenza di rifare ordine nella memoria e nelle conoscenze, di mettere a terra un piccolo mondo emotivo che è sempre on line, un messaggiarsi continuo con la natura, con il conto alla rovescia del passaggio delle stagioni che ritma l’homepage del sito.
La sua Pasta in bianco, di estetica lineare, è celebre. Mi aspettavo quindi che il Natalini avesse nobilitato il piatto più da fuori sede che c’è in un trionfo di burritudine, di erotica grassezza, e invece ecco 30 grammi di spaghetti asettici come un’opera d’arte contemporanea ma di sapore possente, un vero piatto alfa, grazie al vermuth di prugne, all’aceto di riso.
La Lumaca alla bourguignonne, altra icona nataliniana. Mantecata con salsa di spinacino selvatico e cremoso di patate di Mont Saint-Michel, gioca sulla dialettica fertile tra dolcezza e acidità, tra vernacolo e poesia in rima.
Ma il piatto che più mi ha colpito è stata un’insalata che profana definitivamente il concetto privativo di questo piatto, un assortimento di foglie selezionate nell’azienda agricola di Siziano, nell’hinterland milanese sotto le quali si acquatta una magnifica anguilla affumicata.
Poi anche un’emulsione di cozze fermentare, olio alla ‘nduja, king crab e bietole, una Salciccia (con la “c”) con gambero rosa e foie gras a battere e a levare.
Quindi il Maialino con il gambero rosso, sul ring a combattere.
Il Piccione servito in tutte le sue parti, coscia, sovraccoscia, petto, filetto, le interiora su una tartelletta.
E i dolci, una Crema alle tre vaniglie con confettura di albicocche, dulce del leche e gelato al cioccolato bianco.
Due carte
L’ambiente è elegante, con la cucina che domina la prima sala, a vista non solo nella sala ma anche da strada, poi una sala degli specchi e un’altra per eventi privati. Pochi tavoli, una ventina i coperti. Bella carta dei vini, per persone di larghe bevute.
Il servizio è efficiente e caldo, Luca è sempre lì a fare il frontman. I menu sono due, quattro portate salate più tutto il resto a 100 euro, sei portate a 130, poi una carta con antipasti a 28-36 euro, primi a 30-46, secondi a 26-56 e dolci a 14-18.
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